martedì 30 dicembre 2008

Torna in pista Beppe Materazzi


Giuseppe Materazzi è il nuovo allenatore dell'Olympiakos Volos, squadra gerca che partecipa al campionato Beta Ethniki greco, equivalente alla nostra Serie B.
Avrà come assistente e collaboratore tecnico un'altra vecchia conoscenza del calcio italiano, Antonio Antonucci.
Nato ad Arborea (OR) il 5 gennaio 1946, ha giocato in Serie B con Lecce e Bari ed in Serie D con il Tempio Pausania. Con il club salentino ha collezionato 262 presenze in sette stagioni, dal 1968 al 1975, diventando una bandiera della squadra.
É padre del difensore dell'Inter e della nazionale italiana Marco Materazzi.
Dopo aver frequentato con successo il Supercorso di Coverciano,dal 1979 al 1981 allena la Cerretese in Serie C2, da cui verrà esonerato, prima di guidare le giovanili del Bari per due anni. In seguito allena Rimini, Benevento, Casertana.
Nel 1987 è ingaggiato dal Pisa, con cui giunge 13° in Serie A. Nei due anni successivi è sulla panchina della Lazio, condotta ad un buon 9° posto in Serie A nella stagione 1989-1990. Dopo le esperienze al Messina e il ritorno alla Casertana (entrambe in Serie B), nel 1992 si trasferisce al Bari, della cui conduzione tecnica si occupa fino al 1996 disputando due stagioni in Serie B, vincendo il campionato cadetto, e due in Serie A. Nel 1996-1997 è al Padova (Serie B), mentre nel 1997-1998 allena il Brescia (Serie A). Successivamente guida Piacenza, Venezia, Cagliari, prima di tentare l'avventura in Portogallo con lo Sporting Lisbona nel 1999.
Nel 2003 ha allenato la squadra cinese del Tianjin Teda. Nel febbraio 2007 è richiamato ad allenare il Bari per sostituire Rolando Maran. Al suo arrivo i galletti pugliesi navigano in cattive acque riuscendo a portarla ad una quanto mai sofferta salvezza. Il 28 dicembre 2007 si è dimesso dalla guida tecnica del Bari dopo il 4-0 subito nel derby natalizio con il Lecce.

sabato 27 dicembre 2008

Petrucci: ''Mourinho allenatore più intelligente degli ultimi anni''


'Non dà mai risposte banali, anche quando piccate''
Il presidente del Coni sul tecnico dell'Inter: ''Ne ho conosciuti tanti ma lui è veramente originale. Persone come lui portano vantaggi al calcio italiano e ben vengano"
"Sono tanti anni che sono nello sport, e Mourinho forse è l'allenatore oggi più originale e intelligente degli ultimi anni''. Così il presidente del Coni, Gianni Petrucci, a Sky Sport 24 parla del tecnico dell'Inter, Josè Mourinho (nella foto).

''Ne ho conosciuti tanti - dice Petrucci - dal calcio al basket, ma lui per quello che dice, che rappresenta, che ne dice il presidente Moratti è veramente originale, non dà mai risposte banali, anche quando piccate e persone come lui portano vantaggi al calcio italiano e ben vengano".

Poi un auspicio per il 2009. "A Babbo Natale chiederei di non drammatizzare quando si perdono le partite - è il desiderio espresso da Petrucci - un atteggiamento più equilibrato e di non caricare troppo le manifestazioni sportive". Inoltre, "chiederei di evitare i titoli sulle 'partite della vita'. Poi non bisogna ripetere sempre che con la moviola in campo le cose andrebbero meglio, perché l'introduzione della moviola non dipende dallo sport italiano, ma dagli organismi internazionali''.

In generale allo sport italiano il presidente del Coni assegnerebbe un bel 7 ''perché abbiamo fatto una bella figura alle Olimpiadi, il calcio italiano è uscito bene da tanti problemi, oggi c'è un presidente Abete che sta facendo un grande lavoro. Lo sport italiano è eccellenza nel mondo".

Petrucci ha poi confermato che si candiderà per ottenere un nuovo mandato alla presidenza del Coni. "Se il buon Dio vorrà mi ricandiderò e sarò ancora presidente. Per ora ho solamente annunciato la mia candidatura", ha aggiunto il numero uno del Coni che se la dovrà vedere con il presidente della Federazione Italiana Golf, Franco Chimenti.

Fonte: Adnkronos/Ign

martedì 23 dicembre 2008

A Mazzone i nostri auguri speciali


Sono confortanti le condizioni di salute di Carlo Mazzone. Il 71enne ex allenatore di Roma, Napoli, Fiorentina, Bologna e Cagliari, si trova ricoverato da sabato notte all'ospedale Mazzoni di Ascoli, città dove risiede, a causa di un malore che però non ha lasciato conseguenze preoccupanti. Sottoposto agli accertamenti del caso, Mazzone - a titolo precauzionale e per permettere il completamento di tutti gli esami - rimarrà anche la prossima notte nel reparto Utic del nosocomio ascolano da dove dovrebbe essere dimesso martedì.
Mazzone era stato operato per l'asportazione di un calcolo renale - Dopo una notte trascorsa in ospedale, d'accordo con i medici, aveva preferito tornare a casa, ma sabato ha accusato una fibrillazione che ha consigliato il ricovero in ospedale. A Mazzone, assistito dai familiari, stanno giungendo messaggi di pronta guarigione da tutta Italia.
Buon Natale Carlo, ti vogliamo bene.

giovedì 11 dicembre 2008

Ulivieri esprime solidarietà a Morgia


Solidarietà a Massimo Morgia e preoccupazione per una violenza che non è limitata al caso della Juve Stabia. Renzo Ulivieri, presidente dell´Assoallenatori, interviene sui fatti di domenica scorsa dopo la partita interna del club campano con il Lanciano.
"Sento la necessità, a nome di tutta l´Aiac, di esprimere piena solidarietà a Massimo Morgia, allenatore della Juve Stabia, coinvolto suo malgrado insieme ai calciatori Brunner e Radi, negli incidenti di domenica scorsa", il messaggio di Ulivieri, ex allenatore tra le altre di Bologna, Samp, Torino e Napoli. I due calciatori dello Juve Stabia erano stati aggrediti da tifosi locali dopo la partita persa in casa, Morgia era stato colpito da una bottiglietta in testa a partita in corso, mentre era in panchina.
"Il gesto delle sue dimissioni, per protesta contro la situazione di inaccettabile intimidazione, colpisce per coraggio, disinteresse e inquieta per il suo significato profondo - aggiunge Ulivieri - Non può funzionare una sistema che costringe chi è nel giusto a dover cedere alla violenza. Non si tratta di un caso isolato, come è assai diffusa la gestione manipolata e interessata di frange ultras per imporre strategie a società lasciate spesso sole"."Se è vero che la stagione in corso, almeno per quanto riguarda gli incidenti da stadio, in serie A ha fatto registrare il dimezzamento delle multe legate al comportamento dei tifosi - conclude Ulivieri - non si possono ignorare episodi come quello che ha subito Morgia, ancora troppo numerosi e pericolosi perché inquinano la base dell´intero movimento calcistico italiano. A questo proposito serve l´impegno di Lega, Federazione, forze di sicurezza e amministrazioni locali per contrastare con efficacia una violenza che non arriva in prima pagina ma produce effetti altrettanto devastanti".

Vi racconto minacce, botte e paura nell' inferno della Prima divisione


Articolo di Massimo Norrito da "La Repubblica".

Morgia, perché ha lasciato la panchina della Juve Stabia?
«L' ho fatto per alzare la voce. Per rendere pubblica una storia di ordinaria violenza che altrimenti sarebbe passata sotto traccia come tutte le altre. Come le tante che capitano sui campi minori che ormai sono diventati un vero e proprio inferno».
Domenica la Juve Stabia perde in casa contro il Lanciano. A quel punto cosa succede?
«Già allo stadio la contestazione era stata pesante. Insulti, minacce. Una bottiglietta lanciata dagli spalti mi ha colpito alla testa. La tensione era palpabile. Siamo rimasti chiusi negli spogliatoi senza riuscire a mettere il naso fuori con la gente che protestava. Quando alla fine sono riuscito ad andare a casa ho preso carta e penna e ho scritto al presidente Giglio rimettendo il mandato nelle sue mani. Se questo poteva servire a far tornare la serenità ero pronto a farmi da parte. Ma quello era soltanto all' inizio».
Cosa è successo dopo?
«Dopo un' ora e mezza dalla fine della partita due miei giocatori, Brunner e Radi, sono stati fermati da un gruppo di sconosciuti quando già erano lontani dallo stadio. Li hanno costretti a scendere dall' auto e li hanno insultati, minacciati, poi picchiati. Altri due calciatori, Amore e Mineo, che viaggiavano a bordo di un' altra auto, sono riusciti a sfuggire all' agguato. Hanno visto quello che stava accadendo, hanno imboccato l' autostrada e sono scappati mettendosi al sicuro».
E lei che cosa ha fatto? «Ho scritto una nuova lettera al mio presidente rassegnandogli le irrevocabili dimissioni. Restare era diventato impossibile».
Va via per paura?

«Il problema non è la paura. Io voglio restare un uomo libero e qui non ci sono le condizioni perché questo accada. Voglio essere in grado di andare in giro per la città senza dovermi preoccupare, senza dovermi guardare alle spalle, senza dover temere. È in gioco la mia incolumità, ma soprattutto la mia dignità. Io sono un uomo di sport e se alzo la voce è proprio per difendere il mio sport. Qualcuno mi ha detto che vado via perché non ho le palle per restare. Invece io vado via proprio perché ho le palle per denunciare quello che accade. E poi se toccano i miei giocatori è come se toccassero la mia famiglia».
In che senso?
«Se la sono presa con loro. Li hanno spaventati, malmenati. Con quale coraggio potrei guardarli in faccia se non facessi niente per loro? A me non interessa insegnare loro le diagonali o le sovrapposizioni. Non è soltanto questo ciò che voglio trasmettere ai miei giocatori. Voglio trasmettere loro il rispetto, la dignità. Se una cosa del genere fosse accaduta a Milano a Kakà e Ronaldinho sarebbe successo il finimondo. Succede a Brunner e Radi e quasi non se ne parla. Ma questi, prima di essere giocatori, sono uomini».
Non è la prima volta che la sua squadra ha problemi con i tifosi.
«È stata una escalation. Dopo la partita con il Potenza ci hanno tenuto dentro lo spogliatoi due ore. Ci hanno minacciato pesantemente, ma poi tutto è finito. Dopo la partita con la Pistoiese la stessa storia. Siamo rimasti chiusi terrorizzati senza sapere cosa fare. Ci hanno lasciato andare via solo dopo che il presidente ha acconsentito a far salire due ultrà sul pullman che ce ne hanno dette di tutti i colori, minacciandoci e insultandoci. Tutto questo è accaduto sotto lo sguardo della polizia che ha sentito tutto, ha visto tutto, ma non è intervenuta. Siamo andati in ritiro per cercare un po' di tranquillità, ma non è servito a niente. Tutto questo avviene quando giochiamo in casa perché i nostri tifosi sono segnalati e non possono fare le trasferte».
Quanto c' entra con questa violenza il fatto puramente sportivo?
«Credo poco o niente. Questa gente vede l' allenatore e i calciatori come dei nemici, come dei mercenari, come gente che pensa solo ai soldi. E allora io rinuncio ai soldi, ma alzo la voce perché tutti sappiano. E per sentirmi a posto con la mia coscienza e conservare ancora la mia dignità».
Quello che lei disegna sembra uno scenario infernale.
«In effetti è un inferno perché in queste categorie minori non ci sono riflettori puntati, non c' è il controllo che ci può essere nelle altre serie, non c' è la stessa visibilità. Così molti episodi passano in silenzio ed è più facile fare casino. Siamo in balia di questa gente»

sabato 6 dicembre 2008

Osvaldo Bagnoli: il mago della porta accanto


Articolo pubblicato per gentile concessione del sito Storie di Calcio




Di lui non si può dire che sia stato un innovatore tattico o un roboante condottiero di uomini.
Eppure pochi come Osvaldo Bagnoli hanno saputo sottolineare con gli esiti del proprio lavoro l'importanza dell'allenatore.
Smentire l'assioma che vorrebbe ininfluente il tecnico, senza la presenza di adeguati fuoriclasse. Il Verona 1984-85, ultimo intruso della storia all'esclusivo desco metropolitano dello scudetto, non conteneva fuoriclasse, ma un gruppo di buoni giocatori, nessuno dei quali, oltre quella parentesi, ha annoverato in carriera grandi conquiste da primattore. Eppure Osvaldo Bagnoli, con quel suo fare ammiccante e riservato, riuscì a portarlo allo scudetto, superando rivali che i fuoriclasse invece li avevano ben esposti in vetrina.

Osvaldo Bagnoli è stato un tecnico ruspante, ma nel senso migliore del termine. Niente a che vedere con certi abborracciati saperi calcistici di provincia. Piuttosto, la fedeltà alle umili origini portata come una medaglia al pari dell'etichetta vagamente ironica applicatagli all'epoca dei primi successi in Serie A: "il mago della Bovisa". Alla Bovisa, quartiere proletario di Milano, doveva i natali, e al sapore schietto degli anni giovanili, spesi a giocare a calcio con gli amici a piedi nudi sui prati, come in una vecchia canzone di Celen-tano, faceva risalire l'amore per il pallone. Figlio di operai, Osvaldo Bagnoli venne notato nell'Ausonia dal talent scout Malatesta, che lo portò al Milan. Era una mezzala di buona tecnica e dal tiro schioccante, ma il Milan dei Liedholm, Nordahl e Schiaffino non poteva riservargli che uno spazio ridotto, sufficiente tuttavia per la firma sotto lo scudetto del 1956-57. Il suo giro d'Italia lo portò tre stagioni a Verona, una all'Udinese, tre al Catanzaro, tre alla SpaL, una ancora all'Udinese prima della chiusura da libero, cinque stagioni di fila nel Verbania, in C, a far da chioccia a numerosi talenti.

Fu il direttore sportivo Carlo Pedroli, deus ex machina di quella formazione, a intuire in Bagnoli qualità di allenatore. Lo consigliò alla Solbiatese, stessa categoria, sicché non appena smessi i panni di giocatore l'uomo della Bovisa si ritrovò addosso quelli di tecnico. L'avventura si interruppe all'ottava di ritorno, quando mandò fuori dagli spogliatoi il presidente entrato nell'intervallo per consigliargli una mossa tattica. Poche ore dopo, Bagnoli assaporava il gusto acre del siluro, che sta alla carriera di allenatore più o meno come la pioggia al mese di marzo. In giro aveva lasciato qualche amico, come Pippo Marchioro, compagno di strada nel Milan e poi a Catanzaro, che lo chiamò come aiutante di campo nel Como, in Serie B. Qui Bagnoli si applicò anche ai giovani e con tanto entusiasmo da rifiutare l'anno dopo di seguire Marchioro al Cesena. Fu la svolta della carriera, perché quando il tecnico in prima, Beniamino Cancian, venne silurato dopo dodici giornate, i dirigenti lariani pensarono proprio a lui. Il Como era ormai spacciato e il nuovo tecnico non ne cambiò il destino, tuttavia i quindici punti in diciotto partite convinsero i dirigenti a insistere su di lui per la stagione successiva. Sesto posto in B, seguito l'anno dopo a Rimini da una salvezza col sapore della grande impresa.

Quando gli arrivò la chiamata del Fano, due categorie più sotto (C2), Osvaldo non ritenne di dover fare troppo il difficile. In fondo, il mestiere gli piaceva e non c'era bisogno di coltivare esagerate ambizioni per farlo bene. Invece a Fano inseri la presa diretta. Colse il primo posto e la C1, guadagnandosi il ritorno in B, a Cesena, dove prima sfiorò e poi mise a segno il salto in A. Stava diventando uno specialista e come tale lo assunse il Verona, che puntava giusto alla promozione in A. Formidabile motivatore di uomini, sapeva di ognuno quale tasto toccare per spingerlo verso il meglio. Di solito le sue squadre partivano piano, per poi carburare grazie ai suoi meticolosi ritocchi e chiudere alla grande.
Il Verona volò in Serie A e qui confezionò una stagione monstre, conquistando il quarto poston e mancando la Coppa Italia d'un soffio, dopo aver battuto la Juventus nella finale d'andata.
Era un Verona coraggioso, illuminato dalla classe di Dirceu e dalla larghezza di vedute del tecnico: che il fantasista brasiliano se l'era ritrovato in rosa senza averlo chiesto e poi vi aveva modellato il volto dell'attacco, rinunciando a una punta a fianco di Penzo, per favorirne gli inserimenti offensivi. Soprattutto, però, era la squadra dei grandi risorti.

Personaggi gettati nel cestino della mediocrità dai club di provenienza e rivitalizzati fino a misure da campioni dal maestro di panchina. Il lavoro di cesello dell'artigiano Bagnoli produceva capolavori: il mediano Volpati, approdato a Verona credendosi a fine carriera e poi per sei anni tra i più continui difensori della squadra; il terzino Luciano Marangon, alfine compiuto come incursore mancino dopo le promesse nel vivaio della Juventus; il portiere Garella, trasformatosi da sgangherato collezionista di papere in funambolico acrobata; il tornante Fanna, fiore mai del tutto sbocciato nella Juve, risorto come imperiale fantasista delle corsie laterali; il regista Di Gennaro, promessa mancata della Fiorentina; il libero Tricella, scaricato dall'Inter. In pratica, il Verona aveva avuto un solo straniero, Dirceu, dato che l'altro, lo stopper polacco Zmuda, si era subito sfasciato finendo in infermeria. Nell'estate del 1983 il tecnico approvò la politica del club, che non aveva soldi da spendere: cessione degli elementi più pregiati, Dirceu al Napoli, Penzo alla Juventus, Oddi alla Roma, e nuova infornata di elementi da riciclare. Lo stopper Silvano Fontolan, gran colpitore di testa (fratello maggiore dell'attaccante Davide), il ventenne attaccante tascabile Galderisi, funambolo dell'area di rigore finito a immalinconire tra le riserve della Juve dopo gli exploit iniziali, e il centrocampista Bruni, scartato dalla Fiorentina. Il Verona debuttò in Coppa Uefa e visse una nuova stagione da guastafeste delle grandi, finendo al sesto posto.

A quel punto, furono sufficienti due mosse per chiudere il mosaico. Nell'estate del 1984, mentre approdava in Italia Diego Maradona, il Verona si affidava a due stranieri di fascia medio bassa.
Hans-Peter Briegel, gigantesca statua a rotelle, nella Nazionale tedesca agli Europei come difensore puro aveva impressionato solo per la forza fisica; l'attaccante danese Preben Larsen-Elkjaer, meglio conosciuto solo con il secondo dei due cognomi, quello della madre, aveva ben figurato nella rassegna continentale, ma si proponeva come un'incognita. Partito per il solito onorevole campionato di rincalzo alle grandi, il Verona restava in testa dalla prima all'ultima giornata, macinando un calcio vigoroso e spettacolare.
Bagnoli trasformava Volpati in terzino marcatore, faceva di Briegel un mediano incursore di devastante efficacia e in avanti combinava l'agile potenza di Elkjaer ai guizzi del piccolo Galderisi.

La Juve di Platini uscì presto dal giro, l'Inter di Rummenigge duellò a lungo invano, il Torino col suo rush finale conquistò solo il secondo posto. In un panorama ricco di stelle, lo scudetto del Verona rappresentava il premio all'umiltà e alla forza creativa dell'allenatore.
Che spiegava così la propria filosofia tattica: «Il calcio è un gioco semplice, non sono indispensabili astruserie come la zona o il pressing. L'importante è avere la fortuna di trovare gli uomini giusti per metterli poi nei posti giusti; lasciandoli liberi di esprimersi».
La simbiosi tra la città e il tecnico, ormai da tempo stabilitovisi con la famiglia, non poteva essere più completa.
Nella festa dello scudetto, facevano furore gli "Osvaldini", piccoli bulldog di terracotta con la divisa del Verona, omaggio alla ruvida bonomia di un uomo capace con la sua semplicità di conquistare tutti.
Ai complimenti, reagiva con semplici alzate di spalle. Per il trionfo, riusciva a stirare appena un lieve sorriso. Parlava con gli occhi, più che con la bocca.

Quando il campione del mondo Bearzot confessò che il modulo della Nazionale si riconosceva in quello del Verona, il mago della Bovisa si schermì: «Io Bearzot non lo conosco tanto, avrei bisogno di andare a cena con lui. Non so che carattere abbia, mi è difficile spiegare paragoni del genere».
Non era posa, come il tempo avrebbe poi confermato, ma la sincerità di un uomo con il terrore delle esagerazioni. Forse anche per questo il suo Verona non uscì più dalle righe, subito eliminato dalla Juve in Coppa dei Campioni (soprattutto per le nefandezze dell'arbitro Wurz), ma pure al riparo dal rischio di crolli repentini così facile per le provinciali salite all'improvviso sul tetto della gloria.
Altre quattro stagioni, quasi sempre di buona levatura, Bagnoli trascorse alla guida del Verona, prima che una grave crisi sfaldasse le basi finanziarie del club. Nell'estate del 1989 l'ombra del fallimento si allungò sulla società. Venne compicciata in extremis alla bell'e meglio una rosa di giocatori, grazie soprattutto a prestiti di altri club, con la destinazione della retrocessione già segnata sul foglio di partenza.
Bagnoli avrebbe potuto astenersi, ascoltando le sirene che dà più d'una piazza importante cantavano per lui. Ma preferì vivere fino in fondo la parabola della squadra, che alla fine retrocesse, ma all'ultimo tuffo e dopo aver sfiorato il miracolo.
Il distacco da Verona non fu facile. Bagnoli avrebbe voluto restare per edificare la risalita, ma la nuova dirigenza gli diede il benservito. Lo chiamò a Genova Aldo Spinelli, avendone in cambio in pochi mesi un capolavoro.

Pur senza ingaggiare grandi nomi, grazie a Bagnoli il Genoa riebbe dopo anni una fisionomia tecnico tattica solida e spettacolare.
Con la difesa imperniata sul libero Signorini, il centrocampo affidato alle geometrie di Bortolazzi e alle incursioni di fascia di Eranio e Ruotolo da una parte e Branco dall'altra, con l'attacco micidiale del gigante Skuhravy complementare al piccolo e guizzante Aguilera, i rossoblu si piazzarono a uno storico quarto posto, anticamera della prima, storica partecipazione alla Coppa Uefa. Ancora una volta, dietro il consueto pudico ritegno teso a minimizzare le teorizzazioni per esaltare la qualità dei giocatori, c'era un disegno tattico preciso, evoluzione di quello dei felici tempi veronesi.

Il modulo misto già esaltato da Bearzot veniva orientato al pieno sfruttamento delle caratteristiche degli uomini a disposizione: la difesa contava su un libero fisso, Signorini, e due marcatori spesso a zona, Torrente e Caricola, così da consentire ampia possibilità ai due terzini, Eranio a destra e Branco a sinistra, di diventare laterali a tutti gli effetti aggiungendosi ai tre uomini di centrocampo, l'esterno Ruotolo e i due registi Bortolazzi e Onorati. Era il 5-3-2.
L'anno dopo, la cavalcata in Europa assunse toni epici, ben sintetizzati dalla vittoria sul Liverpool nella tana di Anfield Road, per arrestarsi solo in semifinale di fronte allo strapotere dell'Ajax di Bergkamp e Litmanen destinato al successo finale. I tempi del mago della Bovisa erano maturi per il grande club metropolitano. Impossibile pensare che la sua carriera, a un passo dalla vetta, fosse a due dal chiudersi. Bagnoli tornò nella sua Milano, ma dalla parte nerazzurra, fermamente voluto da Pellegrini nell'estate del 1992.

Il compito, tutt'altro che semplice, era ricostruire sulle macerie lasciate dalla rivoluzione fallita di Orrico. Le premesse per il caos, secondo tradizione nerazzurra, non mancavano: quattro stranieri (Shalimov, Sammer, Pancev, Sosa), mentre il regolamento ne consentiva solo tre. Quattro primedonne poco disponibili ad arrugginire in tribuna. Pancev dopo la prima esclusione non si riprese più, Sammer addirittura a fine anno se ne tornò in Germania. Lui, Bagnoli, continuava a forzare i soliti imbarazzati sorrisi e a lavorare al tornio da artigiano, mentre sull'altra sponda il Milan di Capello radeva al suolo la concorrenza con la spavalderia del rullo compressore.
Ancora una volta, a una partenza in sordina fece seguito una crescita costante e inarrestabile, come il lavoro di rifinitura di Bagnoli prese a produrre frutti. In sette giornate, lo svantaggio dai rossoneri scese da undici a quattro punti (allora la vittoria ne concedeva solo due), rendendo decisivo lo scontro diretto, chiuso in un pareggio.
L'Inter dovette accontentarsi della seconda piazza, un bel trampolino per la stagione successiva.
Ma le basi appena gettate già saltavano in aria per il blitz di metà febbraio, con cui Pellegrini era riuscito a ingaggiare a suon di miliardi il conteso olandese Bergkamp assieme al regista Jonk, inserito nel pacco dai mercanti dell'Ajax. Bagnoli aveva trasformato Ruben Sosa in un micidiale cacciatore di gol, ma alla refrattarietà di Bergkamp ad ambientarsi in Italia dovette arrendersi.
Offrì di malavoglia spazio all'altro tulipano dalla difficile pronuncia («il Gionc», lo chiamava) e a febbraio, con la squadra al sesto posto, venne cacciato da Pellegrini.

Quanto fosse lungimirante quella scelta, seppure a fronte di risultati sotto le attese, lo avrebbero dimostrato i rischi di retrocessione corsi dal suo successore, Giampiero Marini. Ma quella porta in faccia gli suonò come uno schiaffo insopportabile. «Via, si dimetta» gli aveva chiesto Pellegrini. «No, si vergogni» aveva risposto lui. Per chiudersi poi in un ostinato mutismo, mai più interrotto se non per frugali risposti dal suo esilio dorato.

Senza polemiche, senza rancori, con la serenità dei nervi distesi: «L'Inter mi ha mandato in pensione in anticipo, ma non voglio darle troppe colpe. Ero ben predisposto.
I primi mesi da esonerato mi dimostrarono che stavo bene anche senza il calcio attivo: stare in campo mi piaceva, ma non sopportavo più il contorno».
E se qualcuno ancora oggi bussa alla sua ruvida scorza di milanese amabile dalla sincerità scontrosa, ripete:
«Io sono un uomo fortunato, perché ho giocato a pallone e ho potuto mettere da parte qualcosina. Se io oggi sono un pensionato sereno, lo devo al calcio. La mia vita è stata molto impegnata e, se tornassi indietro, forse cercherei di trovare qualche spiraglio per il tempo libero. Oggi che di tempo ne ho, capisco quanto è importante.
Ma non parlatemi di sacrifici, per favore. I sacrifici, quelli veri, li fanno gli operai».

giovedì 4 dicembre 2008

Stadi d’Italia


Autore: Sandro Solinas

Ci possono essere molte ragioni per cominciare a scrivere un libro, generalmente però si tratta di possedere un minimo di ispirazione ed un numero sufficiente - si spera - di cose da dire. Questo libro nasce tuttavia da un motivo assai più semplice e forse banale, diciamo che sostanzialmente cominciavo ad essere stufo di aspettare che lo scrivesse qualcun altro. Proprio così, mi pareva impossibile che in terra d’Italia nessuno ancora si fosse occupato di raccontare la storia delle nuove arene che, come i circhi e gli anfiteatri nell’antichità classica, sono ancora oggi i luoghi urbani deputati ad ospitare gli spettacoli sportivi e le manifestazioni di massa. Se la forma architettonica delle strutture è variata poco o nulla, lo spettacolo – ahimè spesso indegno – si è avvicinato poco per volta agli spalti finendo addirittura per riscrivere in parte le regole del gioco. Non ho inteso affrontare in questo contesto il complesso discorso del tifo organizzato che popola in maniera colorata e spettacolare curve e gradinate degli stadi italiani, né in ogni caso avrei potuto farlo non avendo un’adeguata conoscenza del fenomeno. Resterebbe altresì deluso chi volesse ricercare tra queste pagine una dettagliata descrizione delle strutture dal punto di vista architettonico. Ben pochi sono gli stadi degni di nota sotto questo profilo, pochissimi quelli costruiti nel Dopoguerra, e comunque fortunatamente esiste già una vasta letteratura in materia. Ho cercato invece di sottolineare il lato storico e quello sportivo di ciascun impianto visitato, senza alcuna pretesa di aver esaurito l’argomento che, in altre nazioni, gode di ben altra considerazione con regolari e riuscitissime pubblicazioni. Del resto, sono proprio gli stadi italiani a non lasciarsi amare, avviliti tra poco eleganti tribune in tubi metallici e poco confortevoli soluzioni architettoniche figlie di discutibili ristrutturazioni ripetutesi nel tempo. Niente atmosfera, poca identità e anche una buona dose di sfortuna se è vero che gran parte degli impianti costruiti negli ultimi anni ha coinciso con sconcertanti debacle sportive delle squadre che ospitano, a cominciare dall’unica società professionistica proprietaria di uno stadio in Italia, la Reggiana. Spero semmai di aver contribuito con questo libro a restituire un briciolo di dignità e rispetto agli stadi delle nostre città, alcuni rimossi o scivolati nell’oblio, altri ricchi di storia e prestigio, tutti indistintamente testimoni di gioie e dolori di intere generazioni di italiani. La scelta degli stadi visitati o qui trattati non ha seguito una particolare logica; se da un lato ho cercato - per quanto possibile e non senza dolorose rinunce - di attenermi ai principali stadi che hanno ospitato negli ultimi anni il calcio professionistico, dall’altro mi sono permesso di includere qualche impianto momentaneamente fuori del giro o comunque degno di attenzione. In qualche caso, poi, si può dire che la fama raggiunta dallo stadio - e penso soprattutto a Viareggio, Rieti e Marsala - sia più meritata di quella ottenuta dalle rispettiva squadre, almeno negli ultimi anni. Sicuramente mille altre città e mille altri stadi avrebbero avuto tutte le carte in regola per figurare nel testo, nessuno me ne voglia per questo. Vorrei ricordare e ringraziare Vincenzo Paliotto che, oltre ad aver contribuito efficacemente, ha per primo creduto nel mio progetto sostenendomi incessantemente fin dal principio. E poi gli amici Giancarlo Filiani, Gabriele Orlando, Fabrizio Pugi e Luigi Venturi che con le loro foto e i loro stupefacenti archivi personali, hanno saputo illustrare meglio di chiunque altro la storia dei nostri stadi. A loro va un grosso grazie da parte di quanti, come me, sono rimasti legati al calcio di ieri e l’altrieri. Per ultimo, desidero ringraziare i signori Marco Van Basten, Roberto Baggio e Paolo Di Canio per avermi riportato a seguire una gara allo stadio dopo tanto tempo, ricordandomi di guardare ogni tanto anche sul campo di gioco.
L’Autore
Sandro Solinas (Pisa, 1968) si è laureato a Roma in Economia e Commercio con una vergognosa tesi sul celebre caso del calciatore Bosman; ha prontamente rimediato cominciando ad interessarsi voracemente di Storia Medievale, Letteratura del Fantastico ed altri temi assai più nobili. Dopo aver girato (più in lungo che in largo) l’Italia, negli anni Novanta si è trasferito per due anni in Irlanda, avvicinandosi pericolosamente al modesto campionato locale di calcio. Della trasferta gaelica rimane oggi solamente il sito web Into The West, vero oggetto di culto della sparuta ma agguerrita tifoseria del Galway United, ed una bandiera italiana donata alla squadra e tuttora religiosamente conservata nella club house di Terryland Park. La passione per la storia degli stadi di calcio sembra essere recente, ma più d’uno sostiene di ricordare Solinas ancora bambino fissare tribuna e gradinate dell’Arena Garibaldi mentre Pisa e Livorno se le davano di santa ragione sul campo. Tifoso distratto, reo confesso di aver cambiato più volte squadra, oggi Solinas si interessa di storie e personaggi minori del gioco del calcio, anzi del pallone come si ostina tuttora a chiamarlo rivelando impietosi limiti di maturità. Va detto, peraltro, che nonostante le quaranta primavere continua onorevolmente la propria carriera calcistica di cui sta spendendo gli ultimi spiccioli sui campi dell’oratorio. Anche qui, tuttavia, si è trovato spesso fuori dagli schemi, troppo tecnico per fare il mediano, troppo ruvido per giocare da regista. Sposato con Monika, Solinas vive da qualche anno a Vicenza e collabora saltuariamente con varie testate sportive in rete, tenendosi a debita distanza da snervanti blog e chat. (Fonte: Web Site Bonanno)
Casa editrice: Bonanno
Roma - via Torino, 150
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Tel. 095.601984
Fax. 095.9892305

Novembre 2008: 18 cambi di guida tecnica

Aek Atene, Bajevic è il nuovo tecnico | 24.11.2008 - All. Super League Greece (GRE)
Arleo torna al Potenza | 19.11.2008 - All. Lega Pro - 1^ Divisione Gir. B
QPR, Paulo Sousa è il nuovo tecnico | 19.11.2008 - All. Football L. Championship (ING)
Sanderra al Barletta | 19.11.2008 - All. Lega Pro - 2^ Divisione Gir. C
Benevento, Soda nuovo allenatore | 19.11.2008 - All. Lega Pro - 1^ Divisione Gir. B
Alghero, esonerato Giorico. Arriva Corda | 18.11.2008 - All. Lega Pro - 2^ Divisione Gir.A
Potenza, esonerato Gautieri | 17.11.2008 - All. Lega Pro - 1^ Divisione Gir. B
Germinal Beerchoot, Anthuenis in panchina | 17.11.2008 - All. Juliper League (BEL)
Patania nuovo tecnico del Cassino | 13.11.2008 - All. Lega Pro - 2^ Divisione Gir. C
Panionios, esonerato Lienen | 13.11.2008 - All. Super League Greece (GRE)
Il Südtirol esonera D'Angelo e chiama Alessandrini | 13.11.2008 - All. Lega Pro - 2^ Divisione Gir. A
Maurizio D'Angelo non è più il tecnico del Südtirol. Al suo posto il club altoatesino ha nominato il 54enne Marco Alessandrini, lo scorso anno sulla panchina del Gubbio. (Fonte: TMW)
Perrin nuovo tecnico del Saint Etienne | 11.11.2008 - All. Ligue 1 (FRA)
Venezia, Cuoghi nuovo allenatore | 11.11.2008 - All. Lega Pro - 1^ Divisione Gir. A
Il Vaduz esonera Hermann e chiama Littbarski | 05.11.2008 - Super League (SVI)
Ternana, Baldassarri nuovo allenatore | 05.11.2008 - Lega Pro - 1^ Divisione Gir. B
Foligno, è Indiani il nuovo allenatore | 05.11.2008 - Lega Pro - 1^ Divisione Gir. B
Di Carlo nuovo allenatore del Chievo | 04.11.2008 - Serie A (ITA)
Mihajlovic al Bologna | 03.11. 2008 - Serie A (ITA)